Quest’articolo è uscito il 6 gennaio sul Manifesto.
di Giuliano Battiston
Labirinto PALESTINA
Dallo scrittore Saree Makdisi all’urbanista Jeff Halper, un sentiero di lettura intorno a uno dei grovigli più complicati e crudeli della nostra contemporaneità: l’asimmetria sempre più radicale che caratterizza la «interazione» tra Israele e Gaza rappresenta, secondo la sociologa Saskia Sassen, un decisivo punto di rottura nella geometria del periodo attuale
In un saggio dedicato alle città come tecnologie di guerra (When the city itself becomes a technology of war, di prossima pubblicazione sulla rivista statunitense «Theory, Culture & Society») la sociologa Saskia Sassen, esaminando la crescente urbanizzazione delle guerre contemporanee, analizza anche il caso di Gaza. Chiedendosi se l’operazione «Piombo fuso», lanciata dall’esercito israeliano un anno fa, il 27 dicembre 2008, e proseguita fino al 18 gennaio 2009, e «la crescente asimmetria che caratterizza l’interazione Israele-Gaza» non possa segnare un passaggio paradigmatico, «un punto di rottura nella geometria del periodo attuale». Perché se è vero che a Gaza l’esercito israeliano ha potuto dispiegare in modo unilaterale e mettere in pratica strumenti, tattiche e strategie di guerra in contesti urbani, è altrettanto vero che Gaza ha reso visibili «i limiti del potere in condizioni di assoluta superiorità militare».
Una musica di sottofondo
Anche nei casi di una simile sproporzione di forze, e, anzi, proprio laddove l’asimmetria di forze è così radicale ed estrema, argomenta Saskia Sassen, «la forza militare può raggiungere un punto in cui è costretta a puntare all’ostruzionismo piuttosto che polverizzare il suo nemico». Un ostruzionismo che si esercita per esempio impedendo che i beni di prima necessità inviati dalle agenzie di aiuti internazionali raggiungano i destinatari. O con quel «labirinto di leggi, ordini militari, procedure di pianificazione, limitazioni alla libertà di spostamento, burocrazia kafkiana, insediamenti ed infrastrutture» di cui parla Jeff Halper in Ostacoli alla pace. Una riconstestualizzazione del conflitto israelo-palestinese uscito per le edizioni Una Città, 2009 (pp.168, euro 12).
Urbanista e antropologo, già docente presso l’Università di Haifa e di Ben Gurion, fondatore nel 1997 e poi coordinatore dell’Israeli Committee Against House Demolitions, Jeff Halper si dedica da anni – appunto – alla denuncia della demolizione delle case palestinesi, e, poco persuaso che la società israeliana possa ammettere che i propri diritti si fondino spesso sulla negazione di quelli altrui (su questo si veda l’intervista ad Halper in Muri, lacrime e za’tar, di Gianluca Solera, Nuova dimensione, pp.448, euro 18), valuta positivamente il movimento internazionale per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele (Bds).
Un movimento che, specie dopo l’operazione «Piombo fuso» e la ribadita inefficacia degli strumenti del diritto internazionale di fronte all’impune arroganza del governo israeliano, ha trovato nuovi sostenitori. E di cui spiegano le ragioni, tracciando un paragone con il caso del Sudafrica e spiegando nei suoi tratti essenziali la struttura economica di Israele, Diana Carminati e Alfredo Tradardi in Boicottare Israele: una pratica non violenta (Derive Approdi, pp.132, euro 10). Un testo chiaro e didascalico, utile anche a quanti non ritengono legittimo o efficace il ricorso a questo strumento per risolvere il conflitto israelo-palestinese. O, meglio, per mettere fine all’occupazione israeliana dei territori palestinesi. Perché, come ricordava nel 2005 la giornalista israeliana Amira Hass in Domani andrà peggio (Fusi orari, 2005), e come ribadisce oggi Saree Makdisi in Palestina borderline. Storie di un’occupazione quotidiana (Isbn, pp.228, euro 29), una soluzione passa tra le altre cose da un lato per l’analisi dell’interazione tra lingua e politica, dal momento che, scrive Makdisi, «una semplice scelta lessicale esprime e, cosa più importante, genera effetti politici». E dall’altro per l’attenzione alla «musica di sottofondo dell’occupazione», visto che «la stragrande maggioranza degli scontri giornalieri fra israeliani e palestinesi avviene nei luoghi del quotidiano… dove una visione molto politica, dal linguaggio tecnico e asettico delle procedure amministrative e dei regolamenti burocratici, viene applicata negli uffici governativi, ai posti di blocco e ai checkpoint…».
Per questo, sostiene Saree Makdisi, che coniuga con grande efficacia annotazioni di vita quotidiana «aneddotiche» ma esemplari con solide letture politiche degli avvenimenti degli ultimi decenni (dal processo di Oslo alla Road Map – che «spostò la responsabilità della fine dell’occupazione dall’occupante all’occupato» -, fino al successo di Hamas), anziché rappresentare un caso unico, «Gaza è il prototipo di una forma di confinamento e isolamento che è stata applicata anche alle comunità palestinesi della Cisgiordania».
E su Gaza non poteva mancare di riflettere anche Paola Caridi, autrice nel 2007 di Arabi invisibili. Catalogo ragionato degli arabi che non conosciamo. Quelli che non fanno i terroristi (Feltrinelli). La giornalista di «Lettera22» lo fa brillantemente nel suo Hamas. Che cos’è e cosa vuole il movimento radicale palestinese (Feltrinelli, pp. 288, euro 15), in cui combina il metodo rigoroso imparato da Paolo Spriano negli anni di formazione come storica dei partiti politici con la disinvoltura di stile affinata con la pratica giornalistica. Da qui, la capacità di individuare il legame che unisce episodi apparentemente isolati degli ultimi anni – la vittoria alle elezioni politiche del 25 gennaio 2006, il colpo di mano del giugno 2007 con cui Hamas ha assunto il controllo della Striscia di Gaza, l’operazione «Piombo fuso» – a una storia lunga e articolata. Che comincia formalmente il 9 dicembre del 1987, quando viene fondato lo Harakat al Muqawwama al Islamiyya, Hamas. Ma che «risale a oltre sessant’anni fa, nel suo sviluppo locale, e che data dalla fine degli anni venti, nelle sue radici regionali».
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