9. La realtà nonostante l’autore
di Francesco Pacifico
In un saggio contenuto ne Il Romanzo di Franco Moretti, intitolato «L’incontro con la realtà», Alfonso Berardinelli sostiene in maniera molto efficace che il romanzo è il racconto della distanza fra ciò che i personaggi ritengono sia la realtà, e la realtà stessa. «Il cuore della narrazione romanzesca sono esattamente le peripezie del rapporto fra ciò che gli esseri umani inventano o credono e ciò che in realtà accade nella loro vita».
L’aspetto più affascinante di questa definizione è che in qualche modo costringe a concludere che il romanzo sia un genere difettoso in partenza: l’autore infatti ha per forza un’idea sua e limitata della realtà, quindi in teoria non è collocato troppo più in alto del protagonista. Ma il suo protagonista andrà limitato nella propria presunzione di sapere, andrà smascherato, e ai suoi pensieri andranno contrapposti con tecniche varie alcuni fatti da trattare come incontrovertibilmente reali, credibili. Il protagonista parte con alcune ipotesi sulla realtà e nel tentativo di verificarle scopre qualcosa.
Cosa deve fare dunque l’autore? Avere come personaggio principale una versione datata di se stesso, in modo da raccontare quant’è che non capiva delle cose rispetto a quanto ne capisce ora che ne scrive, e far finta che questa nuova e più consapevole versione di se stesso produca una visione delle cose più reale di quella del suo personaggio? Deve dunque creare un gioco di prospettiva per cui una maggiore comprensione della realtà si impone, approssimando in eccesso, come La Realtà?
Non pare una soluzione a prova di bomba. Eppure, secondo me, possiamo applicare a questa idea di Berardinelli la massima di Churchill sulla democrazia: è il regime peggiore, a eccezione di tutti gli altri.
Infatti, se dopo aver creduto per un attimo all’idea per cui il romanzo per darci un senso di verità deve raccontare lo scarto tra come un personaggio se la racconta e come stanno «veramente» le cose, noi rifiutiamo quell’idea perché impossibile da realizzare, ci ritroviamo in mano uno strumento espressivo incontrollabile e reso odioso dalla propria falsità: senza scarto fra ideale e reale che uso faremo dei fatti? Li piegheremo alla nostra presunta volontà onnipotente?
Ora: che le arti visive siano incontrollabili e scatenate ci può anche stare, perché più aumentano la nostra capacità immaginativa meglio è. Ma la prosa si fa con le parole e le parole sembrano sempre portare con sé un bisogno di responsabilità, un qualcosa di terra terra che non ammette eccessivi voli pindarici. O meglio: anche nelle situazioni più assurde, ogni personaggio deve avere una sua logica interna che ci faccia dire Ecce homo (il che per esempio non avviene in Contro il giorno di Pynchon, che mi fa morire di rabbia per quanto un apparato di visioni e nozioni strepitoso si renda quasi inutile perché i personaggi sono, come ha detto un critico americano, stick figures, ossia quei pupazzetti fatti con cinque linee per arti e busto, e un cerchietto al posto della testa.)
Esempio: mi trovo al ristorante; un amico, arrivato in ritardo, si siede accanto a me e comincia a disegnare una serie di schizzi sulla sua giornata in cui un omino salta da un ponte, atterra in piedi, poi viene rapito da un UFO parcheggiato nel cielo sopra un centro commerciale, poi disegna l’UFO che lo accompagna al lavoro superando il traffico sulla tangenziale e infine l’omino si ritrova in ufficio e vediamo un capo ufficio disegnato come un grosso insetto che con le sue ripugnanti zampette pelose consegna del lavoro da fare. Penultimo disegno: l’omino si tocca le tasche, ha la testolina rotonda che sprizza goccioline di sudore: accanto a lui c’è una moto, la sua, che non può avviare. Ultimo disegno: un autobus fermo fra due macchine.
Finita di disegnare la sua saga, finalmente mi dice: «Scusa per il ritardo». Io deduco che ha avuto una giornata difficile, lo perdono, intasco i suoi disegni perché mi hanno fatto ridere e li voglio conservare, rido ancora, gli offro da bere.
Se invece arriva in ritardo e sedendosi mi dice d’un fiato (come John Belushi a Carrie Fischer verso la fine di Blues Brothers): «Stamattina sono saltato da un ponte, sono atterrato nel parcheggio di un centro commerciale dove mi ha rapito un UFO che mi ha accompagnato al lavoro volando sulla tangenziale ma poi in ufficio il mio nuovo capo (una mantide religiosa) mi ha riempito di lavoro e alla fine non ci ho capito più niente e ho perso le chiavi della moto per cui sono venuto in autobus e c’era un traffico assurdo quindi scusa per il ritardo…», avrò probabilmente una reazione diversa.
Non so: le parole sono importanti. Qualcosa ci dice che sono in rapporto troppo diretto con il nostro uso più comune e quotidiano delle cose, e quindi, anche nei più ispirati voli dell’immaginazione, il linguaggio deve avere una grammatica fondata nella realtà. Ciò che rende credibile Philip Dick, per dirne una, è che i suoi personaggi sono vestiti male, stanchi, e lavorano per comprare a tutti i costi degli inutili status symbol (gli animali veri in Ma gli androidi sognano pecore elettriche?).
Torniamo a Berardinelli e la realtà, e lo scarto fra ciò che pensa il protagonista e la realtà.
Nel brano di oggi, Moses Herzog, uno dei più riusciti alter ego di Saul Bellow, osserva la preparazione mattutina della sua amante. Da morbida creatura amata fra le lenzuola, con una meticolosa operazione di restauro da compiere ogni mattina tipo Sisifo, Madeleine si trasforma in donna moderna per andare al lavoro.
Herzog è sopraffatto da queste nuove donne che nel secondo dopoguerra costringono uomini all’antica come lui a stravolgere il proprio concetto dei rapporti fra i sessi. Si capisce che la sua parte più consistente vorrebbe che fosse più facile: è spaesato. Ecco come la giudica: «…diventava una donna di quarant’anni – una qualunque donna bianca, isterica, ipocondriaca, che si genufletteva nelle navate delle chiese. L’ampia falda sulla fronte ansiosa, la sua fanciullesca intensità, il suo timore, la sua caparbietà religiosa – che pietà tutto questo!»
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