Il male minore

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Questo articolo di Alessandro Leogrande è apparso sul Riformista. Lo scrittore israeliano Eyal Weizman affronta la questione dei conflitti giusti e ingiusti: come porre fine ai massacri di massa. La sua è una prospettiva radicale: che ogni aut aut nasconda in realtà una soluzione debole a tal punto da essere un viatico per la leggittimazione di qualsiasi aggressione.

di Alessandro Leogrande

Walzer_blogFino a che punto è lecito un intervento militare che ponga fine a un’atrocità ancora più grande? È questa una delle domande chiave che attraversa la filosofia politica contemporanea, o meglio quel sottile diaframma dato dall’intersezione tra questa e il dibattito sulle «questioni pubbliche» e internazionali cruciali. È possibile formulare una risposta, o una serie di risposte, non in termini di «economia della violenza» bensì di filosofia morale?
Una trentina di anni fa, il filosofo ebreo-americano Michael Walzer ha dedicato al tema un libro importante, Guerre giuste e in giuste (pubblicato da Liguori nel 1990, ora da Laterza), in cui provava a sciogliere la matassa, ripercorrendo il pensiero politico occidentale, da due punti di vista: la legittimazione morale di un intervento armato e – una volta che il conflitto è iniziato – le leggi scritte e non scritte che dovrebbero catalogare una sua condotta il più possibile «etica».
Tralasciando il secondo aspetto (che è pure cruciale, e che ha che fare con l’evoluzione delle convenzioni di guerra), sul primo Walzer delimita con lucidità il campo della morale di guerra. Sono moralmente legittime, scrive, le guerre condotte per autodifesa contro un’aggressione esterna e quelle che rientrano in un particolare caso di «intervento umanitario». Non quello volto al rovesciamento di uno stato tirannico, bensì quello intrapreso per porre fine a una «pulizia etnica» in corso, quando il massacro sistematico di migliaia di civili, uomini, donne, bambini, per mano di truppe militari o paramilitari, non incontra più alcun ragionevole freno. Nel primo caso sarebbe giusto attendersi una rivoluzione o aiutare le forze locali che mirano a un rovesciamento del regime liberticida, ma intervenire con le proprie truppe si configurerebbe come una violazione della sovranità nazionale. Nel secondo caso, invece, l’intervento è legittimo.
Walzer è tornato sugli stessi temi nel suo ultimo libro pubblicato in Italia, la raccolta di saggi Pensare politicamente (Laterza). L’aspetto più interessante del suo ragionamento è che i casi individuati come intervento umanitario riuscito non sono occidentali, non riguardano cioè l’intervento di una potenza occidentale, e sono stati interventi unilaterali, decisi e intrapresi senza aspettare una risoluzione dell’Onu. Benché unilaterali, dice Walzer, sono stati moralmente legittimi perché hanno posto fine a massacri di massa. I tre casi sono: l’intervento del Vietnam in Cambogia per porre fine allo sterminio totalitario dei khmer rossi; dell’India nell’allora Pakistan orientale (oggi Bangladesh) per fermare la marea di profughi originata dalle violenza dell’esercito; della Tanzania in Uganda, per mettere fine alla mattanza di Idi Amin. Sarebbe stato legittimo, ad esempio, un intervento militare in Ruanda, ma non fu intrapreso.
weizman_webLo scenario politico globale del XXI secolo ci dice che questi casi eccezionali non sono più tanto eccezionali. Da ipotesi (comunque concretamente reali) di filosofia politica si sono trasformati in situazioni che tendono a riprodursi ordinariamente. Anche quando avvengono con minore intensità, ripropongono ogni volta con forza la stessa domanda: cosa legittima moralmente un intervento armato che ponga fine a una atrocità ben peggiore?
In un altro saggio da poco nelle librerie, Il male minore, edito da Nottetempo, la questione viene affrontata da una prospettiva radicale. L’autore è l’israeliano Eyal Weizman. Partendo da Hannah Arendt, Weizman sostiene che quella del «male minore» è una questione morale decisiva nell’epoca degli «interventi umanitari» e delle atrocità in diretta televisiva. Chi interviene (anche in casi meno gravi, o profondamente diversi da quelli indicati da Walzer) lo fa argomentando che una violenza regolata e contenuta (quella del proprio intervento) può arrestare un’atrocità ben maggiore, e che pertanto non è moralmente arbitraria. Tutte le guerre «occidentali» degli ultimi vent’anni sono state, in buona sostanza legittimate, in questo modo. Tuttavia Weizman mette in discussione il presupposto che il calcolo utilitaristico possa funzionare sempre allo stesso modo, e apre lo spazio per una critica importante. Spesso gli interventi umanitari producono, per usare un eufemismo, effetti indesiderati, creano più anarchia di quando dovrebbero ridurla. Sapendo di suscitare un vespaio di critiche, afferma che spesso non fare nulla può «essere la forma più efficace di azione politica».
Al di là dei singoli casi storici, Weizman prova a ricostruire la genealogia del concetto di male minore. In un’epoca post-metafisica e post-kantiana, non riusciamo a metterci d’accordo su un’idea di bene comune, universalmente condivisa, ma sappiamo cosa sia il suo opposto. Sappiamo cosa è stata e come è avvenuta la distruzione degli ebrei europei, «l’in-comparabile che va sempre comparato», tanto che essa è diventata (implicitamente, quanto esplicitamente) «lo standard con cui tutti i progetti politici vengono giudicati». Forse non siamo più in grado di costruire grandi cattedrali di filosofia morale che possano essere riconosciute tali, da tutti, su scala globale. Possiamo però intenderci (e un ragionamento simile è stato svolto da Walzer in molte occasioni) su un minino comun denominatore volto all’individuazione dei casi estremi cui opporsi. Da qui la funzione decisiva della filosofia del male minore. Ma, rifacendosi alla miglior tradizione critica occidentale, Weizman rivolta la medaglia e si chiede se «il male minore» non sia la porta di servizio attraverso cui «la banalità del male» entra nel nostro universo mentale e comportamentale, favorendo una giustificazione al male tout court. Detto in altri termini, legittimando una guerra giusta si può finire per legittimare la guerra in sé, con tutti i suoi inevitabili corollari, anche nei casi di conflitto a bassa intensità. Ad esempio: «Elevando gli omicidi mirati a standard legali e morali accettabili, essi diventano parte delle azioni legali dello Stato». Una volta compiuto questo passo, si ha la forza di tornare indietro?
Weizman non vuole sostenere che ogni intervento sia di per sé sbagliato. Si limita solo a scorgere come la posta in gioco sia sempre più complessa di come appaia a prima vista. La guerra non è un fatto di omeopatia, e la morale non può essere troppo frettolosamente ridotta a bio-morale. Quasi sempre l’aut aut tra un male minore e un male maggiore è imposto da un regime totalitario, non dalle forze che dovrebbero intervenire. Pertanto, indipendentemente da quello che si decide di fare in tempi brevi, qualora si voglia mirare a una risoluzione più ampia e profonda di enormi fratture (specie quando non c’è ancora una «pulizia etnica» in atto), spesso la scelta più saggia non è accettare il corno minore dell’aut aut, bensì rifiutare quell’aut aut in blocco e porre la questione in modo radicalmente diverso. Analizzando altre forme di intervento politico.

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