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Vent’anni fa

novembre 20, 2009

Vi proponiamo una selezione di articoli apparsi sulla stampa italiana nei giorni del 1989 immediatamente successivi alla morte di Leonardo Sciascia, il 20 novembre di quell’anno. Una piccola raccolta di parole d’addio di coloro che hanno avuto la fortuna di conoscere questo scrittore dal carattere serioso e insondabile. A vent’anni dalla sua scomparsa, noi di minima&moralia volevamo ricordare con voi un protagonista della letteratura italiana, e anche, come ci racconta Alessandro Leogrande nell’articolo che segue, della nostra vita civile.

La morte di Leonardo Sciascia ci coglie del tutto impreparati sia perché vorremmo che le persone a cui siamo affezionati fossero in un certo modo immortali, sia perché la sua letteratura pareva promettere ancora lunghi e nuovi sviluppi, ma pur nella fretta imposta dalla notizia luttuosa vorremmo fare una riflessione su questo scrittore così importante e così singolare.
Quello che vorremmo dire è che in Sciascia erano presenti due tendenze frequenti agli scrittori italiani: l’ispirazione regionale, provinciale e municipale locale legata al luogo d’origine; e la necessità molto sentita di collegare questa ispirazione con la cultura nazionale e, nel caso di Sciascia, anche europea.
Sulla Sicilia e sulla «sicilianità» di Leonardo Sciascia ho scritto più volte. Ma oggi mi limiterò a dire che Sciascia era altrettanto siciliano che Gadda milanese, Bilenchi toscano, Svevo triestino. Quella che chiamo «sicilianità» era la singolare attitudine molto diffusa in Sicilia di fronte a tutto ciò che è inspiegabile, insolubile, incomprensibile e, insomma, in una parola, misterioso. Molte cose per i siciliani sono misteriose; per Sciascia lo erano tutte. Ma, curiosamente, il mistero non appariva a Sciascia nel primo momento del suo rapporto con la realtà. Tutto all’inizio era invece chiaro razionale e sicuro. Poi, però, via via che lo scrittore procedeva nella sua implacabile analisi, il rapporto col reale diventava sempre più oscuro, dubbioso, enigmatico e finalmente, al posto della certezza originaria, subentrava appunto l’oscurità del mistero. A dirlo in breve, Sciascia procedeva con il metodo opposto a quello dei suoi amati illuministi: questi andavano dal mistero alla verità e alla razionalità; Sciascia andava invece dalla verità e dalla razionalità al mistero. Sciascia era dunque un illuminista per così dire paradossale anche se il suo illuminismo consisteva nel bilanciare la «sicilianità» con l’influenza e l’assistenza di scrittori come Voltaire e Manzoni, forse più il secondo che aveva un vivo senso del mistero che il primo. Così quando Sciascia fermava la sua attenzione sulla realtà della Sicilia, si potrebbe dire che all’inizio era un volterriano e un manzoniano per poi diventare alla fine, nella conclusione, nessun altro che se stesso, tutto solo con la sua ambiguità imprevedibile e ir-resistibile.
Si potrebbe vedere in questo capovolgimento del metodo illuminista un segno del pessimismo siciliano, quel pessimismo fatto di strenua volontà di razionalità e chiarificazione, seguito però immancabilmente da una regolare e inevitabile caduta nella confusione e nell’incertezza. Si potrebbe anche dedurne un pirandellismo di Sciascia. Ma noi preferiamo dire che Sciascia era un certo tipo di scrittore di piglio classico, cioè non decadente, né prezioso, né formale, ma, sia pure attraverso una scrittura essenzialmente letteraria, era legato quasi suo malgrado al reale.
(Alberto Moravia – Corriere della Sera, 21 novembre 1989)
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