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Un vero mondo perduto

marzo 10, 2010

Questo articolo è apparso sul Riformista.

di Nicola Lagioia

Chiusi in una sala cinematografica durante la proiezione de L’uomo che verrà, il film di Giorgio Diritti che racconta la strage di Marzabotto, succede qualcosa a cui la narrazione per immagini aveva ormai quasi completamente disabituato i propri spettatori: ci si commuove senza essere costretti a vergognarsene nelle ore e nei giorni successivi. A luci accese e titoli di coda ancora in scorrimento, in queste settimane è stato possibile riconoscere sui volti di chi restava pietrificato tra i sedili di velluto o si apprestava a imboccare la via d’uscita dei vari Eden o Quattro Fontane occhi rossi e labbra tremanti che nulla avevano però a che fare con il tipo di commozione che lo spettatore può provare davanti alla brillante pornografia sentimentale di un Pretty Woman. Ma a guardar bene, non è neanche la stessa reazione emotiva (per restare sul tema del film di Diritti) che potremmo sperimentare dopo aver visto Shindler’s List, o (per restare al solo sfondo bellico) dopo esserci fatti travolgere dalla geniale riflessione su quel disastro etologico che è il male e la stupidità nell’uomo di un Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick. È stato detto che L’uomo che verrà è un capolavoro. Bene, io credo di poter dire che è qualcosa di meno e qualcosa di più, e proverò in queste poche righe a spiegare il perché.
Il film racconta le settimane antecedenti al 5 ottobre 1944, il giorno in cui nel territorio di Marzabotto e sulle colline di Monte Sole in provincia di Bologna, nel corso di un’operazione di rastrellamento le truppe delle SS e della Whermacht massacrarono barbaramente 700 civili – compresi anziani, donne, bambini – sconvolgendo un’intera comunità e aprendo in quei territori una ferita a cui solo il lento succedersi di stagioni e generazioni avrebbe potuto dare una speranza di guarigione. La vicenda è osservata attraverso gli occhi di Martina, una bambina di otto anni che vive in una numerosa famiglia di contadini e ha smesso di parlare dopo la morte del fratellino, ma che si riaccende di speranza grazie a una nuova gravidanza della mamma (ed è il secondo fratellino «l’uomo che verrà», la cui nascita Martina attende con trepidazione, curiosità e vivo – religioso – senso del mistero), prima che la follia nazista sconvolga e distrugga ogni ordine: religioso, sociale, biologico.
Il film è quasi interamente recitato in dialetto (e sottotitolato), ma la scelta linguistica è solo la più scoperta manifestazione di ciò che rende davvero sorprendente questo film. L’uomo che verrà è un’opera nata dopo un lungo e complesso lavoro sul territorio da parte del regista, che prima di radunare una troupe e cominciare a girare ha frugato nella memoria, nei racconti dei sopravvissuti e dei loro parenti, in modo che la narrazione collettiva di quei luoghi (documento scritto, racconto orale, testimonianza di uomini, donne, fantasmi di defunti, vecchie foto, attrezzi agricoli, persino la vegetazione, persino la muta roccia delle vecchie costruzioni e la breccia ai bordi dei sentieri!) irrompesse poi nella pellicola non per «ricostruire» la strage di Marzabotto (come qualunque buon regista – e benché i buoni registi siano pochi – sarebbe in grado fare) ma per farcela vivere. Il risultato è che poi, guardando il film, si ha quasi l’impressione (o meglio si sente) di partecipare a una sorta esercizio medianico. Una seduta spiritica. E, di conseguenza, ci si commuove.
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