L’industria della solidarietà: Linda Polman e il big business umanitario

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di Ernesto Aloia

Dopo la lettura del saggio di Linda Polman, L’industria della solidarietà, (Bruno Mondadori, 214 pp, 16 euro), forse faremmo bene ad aggiornare il breve catalogo delle nostre certezze. I Buoni non sono più buoni. O almeno, non sempre.
Le organizzazioni umanitarie in zona di guerra saranno pure animate da ottime intenzioni, ma è molto dubbio se il loro impatto sia positivo o se, piuttosto, non finisca paradossalmente per tradursi in un aggravamento e in un allungamento dei conflitti.

LIFE_CoverIl dilemma è antico quanto il concetto stesso di “organizzazione umanitaria” (che risale allo svizzero Henri Dunant, fondatore nel 1863 della Croce Rossa), ma in epoca contemporanea trova la sua rappresentazione più emblematica nel caso celeberrimo della carestia del Biafra del 1967-1970.

La cosa più notevole della carestia del Biafra è che non ci fu nessuna carestia. La regione era tra le più ricche della Nigeria, e fu proprio questo a spingere il suo governatore, Emeka Ojukwu, a dichiarare la secessione, cui le autorità centrali reagirono con un blocco degli approvvigionamenti. Era il 30 maggio 1967. A prima vista, l’esito della guerra civile era scontato: Ojukwu disponeva di quarantamila soldati contro i centottantamila del governo legittimo. Quasi subito, le truppe nigeriane avevano riconquistato le importanti città di Port Harcourt e Calabar. Ma in soccorso ai secessionisti si mosse un esercito di altro genere. Nel 1968 Ojukwu si rivolse a un’agenzia di pubbliche relazioni di Ginevra, la Mark Press, perché organizzasse una campagna mondiale tesa a convincere il mondo che il governo nigeriano aveva dichiarato guerra al Biafra e stava cercando deliberatamente di sterminarne la popolazione con la fame. Le foto dei bambini denutriti, con le mosche sugli occhi e le pance gonfie, cominciarono a fare il giro del mondo. La carovana delle organizzazioni umanitarie si mosse, e quello che accadde costituisce una sorta di paradigma destinato a ripetersi infinite volte, su scala maggiore, nelle crisi successive. Poiché il Biafra accerchiato era raggiungibile solo per via aerea, Ojukwu ottenne che una parte dello spazio di carico dei velivoli fosse sottratto a viveri e medicinali e destinato alle sue forniture belliche. Inoltre, si inventò esose tasse di atterraggio e di importazione per consentire l’entrata degli aiuti nel paese, e pretese che una parte servisse a sfamare le proprie truppe (anche loro, fece presente ai dirigenti delle organizzazioni umanitarie, dovevano mangiare). Le ONG, pur di portare soccorso, accettarono tutte le imposizioni. Insieme al cibo e alle armi, dalle stive degli aerei cargo si riversarono in Biafra anche battaglioni di giornalisti, che non fecero che gettare benzina sul fuoco mediatico. Più le televisioni trasmettevano immagini di bambini denutriti, più i donatori finanziavano le ONG, più queste si impegnavano a mandare aerei. E Ojukwu ne ricavava somme sempre maggiori con cui nutrire e finanziare il suo esercito e arricchire il suo patrimonio personale. Con i soldi sottratti alle organizzazioni umanitarie internazionali riuscì a resistere fino al gennaio 1970, quando fuggì in Costa D’Avorio facendo trasportare da un aereo la sua Mercedes, le sue mogli e tremila chili di bagagli. E ad aspettarlo, lontano dal sanguinoso caos africano, c’erano i suoi conti bancari svizzeri.

Il mondo delle organizzazioni umanitarie si è spesso interrogato sul caso del Biafra, ma non è mai giunto a conclusioni definitive: gli aiuti internazionali avevano davvero portato giovamento alle popolazioni civili, oppure erano serviti soprattutto a finanziare Ojukwu e a prolungare una guerra civile che, vista la sproporzione delle forze, sarebbe stata destinata a concludersi in breve tempo?

Dai tempi del Biafra, la situazione è molto cambiata. Se allora le organizzazioniPalazzo ONU N.Y. umanitarie si contavano a decine, oggi una crisi (regolarmente presentata come “la più grave emergenza umanitaria della storia recente”) ne richiama migliaia. L’ONU stima il numero delle ONG in trentasettemila e calcola che, se i loro fondi fossero riuniti, rappresenterebbero la quinta economia mondiale. I Paesi OCSE stanziano ogni anno circa 120 miliardi di dollari, cui vanno aggiunti i finanziamenti dei privati, difficilmente calcolabili. Ma la pratica delle operazioni in zona di guerra è sempre la stessa: non si entra in uno “spazio umanitario” senza pagare. E così una parte cospicua di questa enorme massa di denaro finisce col finanziare le guerre le cui vittime sarebbe destinata a curare. In Pakistan, le ONG sono costrette a versare un quarto degli aiuti umanitari ai talebani che controllano i campi profughi a ridosso del confine con l’Afghanistan, e così rappresentano una delle principali voci di entrata della loro guerra. In Somalia, nel 1992, la percentuale richiesta era ancora più alta. Se poi non esiste un vero e proprio capo e bisogna pagare tutti i vari “signori della guerra”, la percentuale di aiuti dispersi può arrivare all’80%. Nelle guerre contemporanee gli aiuti sono diventati una vera e propria componente delle strategie dei contendenti, e ogni parte cerca di aggiudicarsene il più possibile e di privarne i propri avversari.

Per le ONG è difficilissimo sottrarsi a questa logica: in primo luogo perché la loro filosofia è di portare sempre e comunque – imparzialmente, secondo le regole di Henri Dunant – soccorso; in secondo luogo, perché la concorrenza nel settore umanitario si è fatta spietata. Nessuno può permettersi di rinunciare ai contratti con i donatori. La necessità di intercettare i ricchi flussi di denaro provenienti da governi, organizzazioni internazionali e privati, ha trasformato i dirigenti delle moderne ONG in professionisti laureati in non-profit management esperti di marketing, di pianificazione, di product placement. Come scrive Linda Polman: “le organizzazioni umanitarie sono società travestite da Madre Teresa di Calcutta”. Nicholas Stockton, ex direttore di Oxfam International, ebbe a dichiare a Newsweek: “Esiste un mercato per le opere buone. E’ big business. Chiamatela economia morale, se volete.”

2340-1Questo stato di cose ha forse reso le ONG più efficienti – ma i casi che si sono ripetuti dopo quello del Biafra non hanno fatto che aumentare il numero degli interrogativi riguardo ai benefici legati al compimento della loro missione. In Bosnia, le ONG erano di fatto manovrate dai generali serbi per i fini di pulizia etnica: semplicemente, consentivano loro di portare aiuti nelle aree in cui desideravano un concentramento di popolazione, e impedivano l’afflusso alle aree che desideravano veder spopolate. In Ruanda, nel 1994, l’ignoranza della situazione politica locale spinse le ONG a scambiare i profughi di Goma per le vittime delle violenze, quando invece si trattava degli hutu che dopo aver massacrato ottocentomila connazionali in tre settimane lasciavano il paese temendo la reazione delle milizie tutsi che si erano formate nel frattempo. Sul solo campo di Goma operarono cento ONG, una ventina di enti di paesi donatori e varie agenzie delle Nazioni Unite. Gli estremisti hutu – alloggiati, nutriti e vestiti in quello che è stato descritto come “un supermarket degli aiuti” – ne fecero in breve la loro base e, con la minaccia della violenza, imposero il loro controllo sul campo. La radio di Goma, gestita dagli hutu, incitava continuamente a “schiacciare gli scarafaggi” e ripeteva senza sosta che “l’uccisione di un tutsi non è un omicidio”. Ogni notte milizie armate facevano ritorno in Ruanda per completare il lavoro, per poi rifugiarsi nello spazio umanitario protetto. La situazione era talmente fuori controllo che, nel dicembre 1994, Medici senza Frontiere-Francia decise di andarsene da Goma. La reazione delle altre organizzazioni fu esemplare: dichiararono che i francesi con il loro gesto volevano semplicemente farsi pubblicità.

Nessuna delle ambiguità relative al contrasto tra l’intransigenza dei principi di neutralità e imparzialità delle ONG e le discutibili ricadute pratiche dei loro interventi è stata chiarita. Si poteva ancora sostenere che l’intervento delle ONG recasse qualche beneficio ai profughi scampati al genocidio ruandese o, piuttosto, non stava facilitando il lavoro degli hutu estremisti? Nessuno ha ancora dato risposta a domande come questa. Periodicamente i vertici delle maggiori organizzazioni si riuniscono per cercare di determinare regole di condotta comuni, e di passare dal regime della concorrenza a quello della cooperazione. A tutt’oggi, sono ancora ben lontani dal fornire risposte adeguate a domande come quelle sollevate dalle pagine di Linda Polman.

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8 Risposte to “L’industria della solidarietà: Linda Polman e il big business umanitario”

  1. Serafina Says:

    Leggerò questo libro, visto che ho lavorato per un periodo in un’organizzazione umanitaria, e posso solo dire che l’organizzazione umanitaria più grande è e peggiori sono i suoi risultati e aiuti (questo discorso vale per tutte anche per le Nazioni Unite).. un altro libro però c’è Jean-Selim “LA MIA GUERRA ALL’INDIFFERENZA” che parte forse da una base diversa di quella di Linda Polman. Prima di fare le mie considerazioni dovrò leggere questo libro con molta attenzione perchè sparare sulla Croce Rossa è troppo facile quando non si vive sul territorio alcune dinamiche.

  2. pietro fattori Says:

    ho da tempo una convinzione; anche se volesse, il sistema capitalistico, specie la versione turbo, non potrebbe mai, nè al centro del sistema, nè entro i circuiti periferici e vassalli, agire in modi legali, “puliti”, onesti -men che meno umanitari; funziona secondo logiche che appunto si estendono dal centro alle periferie con la stessa pressione; ho idea che non dipenda dalla volontà buona o malandrina e profittatrice dei “buoni”, ma proprio dall’impossibilità di fare scelte “libere”; un tempo lo si diceva senza scandalo: il capitalismo si può solo rovesciare

  3. silvia Says:

    leggerò questo libro perchè ad una prima lettura rispecchia la mia idea, che da tempo ho sulle O.N.G. ne approfitto per inserirlo in una relazione che dovrò consegnere proprio sul business delle O.N.G. e sula fatto se oggi possiamo parlare di nuovo “colonialismo umanitario” o di “guerra umanitaria” e se si, se entrerà mai a far parte di una delle voci di diritto internazionale, con l’istituzione di un tribunale penale internazionale apposito. se ciò accadrà possiamo dire di aver superato la deriva e di essere ad un punto di non ritorno.

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