Tutte le strade portano indietro. Una riflessione sulla letteratura americana dopo l’11 settembre

by

Pubblichiamo quest’articolo apparso qualche giorno fa sul Manifesto, firmato da Luca Briasco, editor della casa editrice Einaudi e conoscitore critico e specialista di letteratura americana postmoderna e contemporanea.

di Luca Briasco

Riflettere sulla letteratura americana, sul suo stato di salute e sulle direzioni verso le quali si sta orientando equivale prima di tutto a cercare di capire e assimilare un decennio difficile e contraddittorio, che si è aperto con una data tanto fatidica quanto extraletteraria. L’11 settembre 2001 e i suoi significati culturali vanno ben al di là del quadro sociopolitico che l’attentato al World Trade Center ha sancito e inaugurato al tempo stesso: il crollo delle Torri ha scavato un vero e proprio abisso nella psiche collettiva, traducendosi prima di tutto in una profonda crisi della rappresentazione, della parola, dei modi di racconto.

Soluzioni pescate dal passato
L’America emersa dall’11 settembre si è rifugiata in un modello narrativo unico e rassicurante, nel quale il mito della democrazia, la ricodificazione del nazionalismo, i valori del fondamentalismo cristiano sono stati riorganizzati in un nuovo mix, costruendo l’immagine di una nazione granitica, in grado di rinsaldare la propria identità collettiva anche al prezzo di una cessione di libertà individuali e di una omogeneizzazione del panorama culturale. Ne è emerso un paese chiuso dentro se stesso, sordo alla perdita di prestigio e di leadership internazionale (culturale ed economica), soprattutto incapace di riprendere quell’opera incessante di ascolto, assimilazione e rielaborazione che – la si voglia o meno sintetizzare nel termine melting pot – ne ha sempre rappresentato la forza attrattiva.
La letteratura americana ha pagato questa crisi senza riuscire, come pure era accaduto in altre circostanze – una su tutte: la guerra del Vietnam – a trovare il linguaggio giusto per raccontarla e per invertire il modello narrativo dominante, o per svelarne le falsità. Per quasi tutto il decennio che si avvia a conclusione, il compito di polemizzare con la vulgata dell’America di Bush è stato affidato a figure «pubbliche», che trovano nella forma scritta più un’occasione per sintetizzare percorsi creativi sviluppati all’interno di altri media che non uno spazio privilegiato: Michael Moore e David Sedaris (quest’ultimo, con un grado molto più forte di consapevolezza formale) su tutti. Il romanzo statunitense ha scelto altre vie, molto più indirette, nelle quali al corpo a corpo, allo scontro all’arma bianca con i nuovi conformismi, viene preferita la narrazione distesa, la saga famigliare, la rievocazione nostalgica di un «bel tempo andato» da contrapporre ai falsi valori del presente; o addirittura il romanzo storico, che proprio in questo inizio millennio ha conosciuto un ritorno di fiamma certamente non casuale.
Da questa prospettiva critica, l’autore che segna il vero e proprio spartiacque tra la letteratura degli anni ’90 e quella che si affaccia affannosamente sulle rovine delle Torri è senza dubbio Philip Roth. Che al fervore di fine millennio aveva contribuito attivamente con due dei suoi romanzi più complessi e ambiziosi (Operazione Shylock e soprattutto Il teatro di Sabbath), e che subito dopo si è avventurato in una complessa opera di ricodificazione dei propri temi privilegiati, nella quale all’esplorazione diretta della scena contemporanea si sovrappone la rievocazione nostalgica di un tempo e di un sistema di valori ormai irrecuperabili. Di questa ricodificazione, che ha peraltro sancito in via definitiva l’ingresso di Roth nell’Olimpo dei classici, è testimonianza una serie di romanzi strutturalmente perfetti e sorprendentemente armoniosi, spesso imperniati su una qualche forma di conflitto generazionale, lontani dalla frenesia e dalla furibonda inventiva delle opere precedenti (due titoli su tutti: Pastorale americana e La macchia umana).

Un pessimismo rassicurante
La tendenza a sfuggire al confronto diretto con il presente, e a commentarlo in contrapposizione a una pienezza a volte immaginata almeno quanto reale, è anche la chiave per spiegare il successo improvviso di un autore che per anni aveva simboleggiato (non meno di Salinger e Pynchon) il mito dell’artista recluso e sdegnosamente in fuga dalla notorietà e dalle vendite. Già con la Trilogia della frontiera, e ancor più con Non è un paese per vecchi e La strada, Cormac McCarthy ha deliberatamente preso le distanze dal pessimismo radicale che aveva contraddistinto la sua prima fase creativa e quelle che restano forse le sue opere migliori (Il buio fuori, Figlio di Dio, Meridiano di sangue), ricorrendo ai moduli narrativi consolidati del western, del noir e della fantascienza per contrapporre la solidità di valori non recuperabili (ma forse per questo ancor più «autentici») alla catastrofe e alla deriva materialistica del presente (o del futuro prossimo).
In questo moto oscillatorio tra nostalgia e catastrofismo, i romanzi dell’ultimo McCarthy – non diversamente da quelli dell’ultimo Roth – propongono al lettore un «pessimismo rassicurante», assolutamente adatto a tempi di crisi; la forma narrativa subisce una corrispondente contrazione, nel momento in cui rinuncia al quadro complesso, al ritratto collettivo di una nazione, e preferisce riprodurne le contraddizioni attraverso il conflitto tra personaggi (il vecchio sceriffo Bell e il killer Chigurrh in Non è un paese per vecchi).
Partire da due autori che hanno esordito a cavallo tra gli anni ’50 e i ’60 per costruire un quadro della letteratura americana contemporanea può sembrare contraddittorio, ma lo è solo in apparenza. Il ripiegamento di McCarthy e Roth e il loro approdo a forme radicate nella tradizione americana li trasforma in veri e propri capifila (più o meno riconosciuti) di quella che si può definire a tutti gli effetti la narrativa dominante negli Stati Uniti di questo inizio millennio. I due romanzi forse più importanti di questi ultimi anni – Le correzioni di Jonathan Franzen e Middlesex di Jeffrey Eugenides – presentano infatti più di un’analogia con il percorso che ha condotto Roth e McCarthy verso lo status di classici contemporanei. Tanto nel caso di Franzen quanto in quello di Eugenides, infatti, la forma e i temi trattati, dietro la scintillante patina postmoderna, configurano un vero e proprio ritorno della grande narrazione, quando non, come in Eugenides, del romanzo storico. Ed entrambi gli autori giungono al loro magnum opus partendo da opere imperfette e irrequiete (La ventisettesima città per Franzen, Le vergini suicide per Eugenides), nelle quali alla sperimentazione narrativa si accompagnavano diagnosi ben più distruttive e a diretto contatto con il contemporaneo, tra crisi del modello famigliare e distopia. Nelle Correzioni e in Middlesex, come anche nella fantasmagoria «storica» delle Fantastiche avventure di Kavalier e Clay di Michael Chabon, esiste una evidente, a tratti esplicita contrapposizione tra un mondo favoloso e sentimentale, disperso nei meandri della storia e ricreato da personaggi alla deriva nel presente, e una realtà inaridita o mascherata dietro falsi miti. Una realtà, soprattutto, che appare «illeggibile», irreparabilmente opaca, cosicché allo scrittore e all’intellettuale non resta che leggerla attraverso ciò che essa non è più, o, in alternativa, attraverso lo sguardo vergine e ingenuo del bambino, del folle, dello straniero.
È questa l’altra via che la nuova letteratura americana ha intrapreso per istituire un rapporto con la realtà dell’oggi. Ed è la via seguita da Dave Eggers nel suo notevole romanzo di esordio L’opera struggente di un formidabile genio, purtroppo rimasto senza seguiti all’altezza, come anche da Jonathan Safran Foer in Ogni cosa è illuminata (il suo libro migliore) e in Molto forte, incredibilmente vicino. Si tratta di tre opere – alle quali merita di essere accostato anche Lowboy di John Wray, forse l’autore più interessante dell’ultima generazione – nelle quali le grandi ferite remote e recenti della contemporaneità, dall’Olocausto all’11 settembre, al riscaldamento globale, vengono elaborate e portate sulla scena attraverso uno sguardo altro, in grado di percepirle, a partire da un sistematico straniamento, nei loro elementi essenziali e più autentici.
Nel ricorrere alle due strade del romanzo-saga e della Bildung, la nuova narrativa americana sembra perseguire un ritorno alle proprie radici profonde (dunque, all’antica polarità Henry James – Mark Twain), abbandonando quella vena più sperimentale, aperta e coraggiosa che, tra gli anni ’80 e i ’90, aveva animato una generazione di nuovi, grandi autori, da William Vollmann a David Foster Wallace, a Richard Powers.
D’altro canto, alla ricerca di una nuova (o antica) solidità si accompagna il consapevole tentativo di preservare le innovazioni del postmoderno, se non altro attraverso il ricorso all’ironia, al disincanto, al gioco metanarrativo. Un tentativo che – proprio quando del postmoderno sembra essersi esaurita la spinta critica e l’ambizione – si configura come sempre più decisamente maschile: non è un caso che gli autori citati finora siano tutti uomini, e bianchi (anche se non necessariamente wasp).

Il punto di vista femminile
Affidandosi alla solidità della trama e alla centralità dei personaggi e della loro psicologia, gli eredi dei postmoderni, di Roth e di McCarthy, «invadono» un territorio a lungo affidato alla gelosa custodia delle scrittrici. La narrazione al femminile resta infatti profondamente innervata dentro la tradizione del romanzo di famiglia: con in più un radicamento nei luoghi e nei territori che ha indotto spesso la critica a parlare (non senza un fondo di sprezzo) di regionalismo, quasi a voler trasformare la geografia in «gabbia» e in fattore riduttivo. Eppure, proprio a partire dal suo radicamento, la narrativa al femminile ha saputo raggiungere una universalità e una profondità di sguardo capace di dire sull’America di oggi molto e forse più rispetto alle saghe nostalgiche maschili cui sono andati troppo spesso il plauso e gli allori. È il caso di Marylinne Robinson, rimasta per molti anni l’autrice di un unico, memorabile romanzo, Housekeeping (ancora in attesa di traduzione), e poi in grado di superarsi con la splendida elegia di Gilead; oppure, guardando alle nuove generazioni, di A. M. Homes, che nei suoi romanzi, ma soprattutto nei superbi racconti della Sicurezza degli oggetti, ha esplorato le patologie dell’America contemporanea a partire dall’istituzione famigliare, con una esattezza di sguardo e una innovatività di forme che hanno pochi eguali.
E ancora, quasi a voler proporre un percorso inverso e complementare rispetto a quello (essenzialmente centripeto) della narrativa maschile, le migliori e più coraggiose scrittrici statunitensi si sono lanciate nell’esplorazione a tutto campo del nuovo (e artefatto) sogno americano, svelandone limiti e menzogne. È quanto ha saputo fare Joyce Carol Oates, narratrice di inarrivabile eclettismo, capace di spaziare tra romanzo di famiglia, giallo, neogotico e saggistica. Il suo Sorella, mio unico amore, prendendo le mosse da una tipica famiglia suburbana americana e raccontandone le ambizioni smodate e la pubblica caduta, riesce a rivelare la marcescenza, la volgarità e la finzione sottesa all’America di Bush meglio di qualunque altro romanzo degli ultimi anni. Insieme a E poi siamo arrivati alla fine, romanzo di esordio di Joshua Ferris, ritratto collettivo della nuova generazione di colletti bianchi davvero notevole per profondità e innovazione formale, l’ultimo libro di Oates rappresenta un segnale di ritrovata vitalità e ambizione: bisognerà però attenderne i seguiti per avere la certezza che il romanzo americano abbia ripreso le armi e possa reclamare quel ruolo di laboratorio del nuovo che per tanti anni aveva saputo ricoprire.

Tag: , , , , , , , , , , , , , , , , , , ,

4 Risposte to “Tutte le strade portano indietro. Una riflessione sulla letteratura americana dopo l’11 settembre”

  1. Franzen, Le Correzioni | ZackSpace Says:

    […] Le Correzioni di Franzen è un libro capace di cogliere e spiegare gli aspetti quotidiani e meno evidenti del comportamento degli individui in società, e quindi colmo di pessimismo, depressione, rassegnazione. Ma, in fondo è vero, con qualcosa, forse umana compassione, forse un retrogusto in qualche modo rassicurante. […]

  2. Le correzioni « wirwer Says:

    […] un articolo apparso la scorsa estate sul Manifesto (che ora potete leggere qui), Luca Briasco notava che dietro «la scintillante patina postmoderna» il romanzo di Franzen […]

  3. Le correzioni « WirWer Says:

    […] un articolo apparso la scorsa estate sul Manifesto (che ora potete leggere qui), Luca Briasco notava che dietro «la scintillante patina postmoderna» il romanzo di Franzen […]

  4. Karry Says:

    Post writing is also a fun, if you be familiar with
    after that you can write otherwise it is complex to write.

Lascia un commento