Questo articolo è apparso sul Manifesto.
di Luca Briasco
Finzioni DOPO LA FINE
Una messa a fuoco delle espressioni più recenti che la letteratura ha dato alle nostre paure, tra fantascienza e nostalgie del presente. Fredric Jameson ha parlato di «un millenarismo invertito» e James Berger ha osservato come alla fine del XX secolo alcuni romanzi ci abbiano fornito «una retrospettiva prospettica».
«Sono finito, pensa Bunny Munro in quell’attimo improvviso di consapevolezza riservato a chi ha i giorni contati. Ha la sensazione di aver commesso un grave errore, ma è una sensazione che passa in un lampo terribile e sparisce, lasciandolo in una stanza del Grenville Hotel in mutande, solo con se stesso e la sua fame». In questo incipit c’è già tutta la strana grandezza che fa di La morte di Bunny Munro, secondo romanzo del musicista e compositore rock Nick Cave, forse l’opera narrativa più importante del 2009. L’inconsapevolezza e il senso della fine, una fine in qualche modo sempre già avvenuta, sono i due perni intorno ai quali Cave allestisce una sorta di Everyman postmoderno, molto più vicino allo spirito del morality play medievale di quanto non abbia saputo o voluto esserlo il romanzo di Philip Roth che ne mutuava il nome. Ed è probabilmente nel quadro di una letteratura ossessionata dalla fine come dato di fatto epocale e già compiuto che il romanzo di Cave va misurato, per scoprirne l’originalità e la capacità di tracciare scenari nuovi e inediti.
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