Morire di stato

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05. Decesso della Seconda Repubblica 4/12/09
di Gianluca Cataldo

Dichiarazioni di Spatuzza davanti ai giudici della II sezione della Corte d’Appello di Palermo (in trasferta a Torino). Il pentito verrà poi smentito dai fratelli Graviano, o meglio da uno dei fratelli Graviano. Riportiamo, a tal riguardo, l’estratto di un articolo di Giuseppe D’Avanzo pubblicato su Repubblica il 12 dicembre 2009

Nell’aula risuonano i tre «no» tondi e secchi di Filippo Graviano. «Conosce Marcello Dell’Utri?», chiede la Corte. «No!», risponde. «Ha mai incontrato Marcello Dell’Utri?». «Assolutamente no!». «Ha mai avuto rapporti anche indiretti con Marcello Dell’Utri?». «No!». I tre «no» rendono molto soddisfatta la difesa del senatore. Fanno dire a Berlusconi che «siamo alle comiche». Susciteranno gli animati strepiti dei turiferari del cavaliere.
Con buone ragioni, se l’affare lo si semplifica fino a non tener conto delle anomalie di questo processo e dell’abitudine tutta siciliana all’omissione, all’ambiguità, al non detto che allude, al detto che nasconde: la migliore parola è quella che non si dice, dicono nell’Isola. Anche ieri, la parola più determinante non è stata detta. Avrebbe potuto dirla Giuseppe Graviano. È lui che organizza le stragi del 1993, non Filippo. È lui, non Filippo, che – secondo Gaspare Spatuzza – si gloria di «essersi messo il Paese nelle mani» forte delle promesse di Berlusconi («quello di Canale 5») e di Dell’Utri («il paesano»). Con una sola parola, il mafioso di Brancaccio avrebbe potuto o distruggere la credibilità di Spatuzza o dannare all’inferno il senatore. Quella parola l’ha rifiutata per il momento almeno fino a quando non gli saranno attenuante le severe condizioni carcerarie che lo affliggono.
Ora ci si può sbizzarrire con l’ermeneutica. Giuseppe Graviano a chi sta parlando obliquamente? Chi minaccia? Chi ricatta? I magistrati, che ritiene responsabili del suo regime di detenzione? O il governo che incrudelisce le regole? Ogni risposta può essere buona e in ogni caso, in assenza della testimonianza del mafioso, inservibile per un processo che ormai mostra le sue anomalie, in modo fin troppo palese.


Sedizione
di Gianluca Cataldo

Siamo un’agenzia che prepara eventi sociologici su base demografica. Al servizio di gruppi anarco-insurrezionalisti abbiamo dimostrato che la democrazia (o la forma corrente di Stato) è marcia e non funziona.
Siamo cineasti disillusi dalla storia della politica e attribuiamo all’arte un valore che eccede i normali termini di spazio andando oltre la quarta parete e disintegrando addirittura la quinta, parete di cui finora in pochi avevano intuito esisterne addirittura una quinta bis e, forse e solo se alcune nostre teorie su dio dovessero rivelarsi correte, una sesta. Per entrambe il nostro proposito è di abbatterle. E se questo dovesse portare alla fine dell’evidenza per come la conosciamo il nostro intento è proprio quello di far esplodere consapevolezze espandendo fino al capovolgimento i capisaldi mediatici del nostro mondo così per come crediamo di conoscerlo.
I giornali dissero di noi che siamo stati incoerenti con le nostre spiegazioni. La cosa ci scombussolò alquanto dal momento che le nostre spiegazioni, come piacque di etichettarle a quelli, non erano tali se non da un punto di vista, per così dire, discorsivo. Se a una domanda segue una risposta e una richiesta è soddisfatta da una spiegazione, il normale corso di una domanda surrettizia è un dubbio. Il vostro dubbio. Se noi vi chiedessimo «è vero?» dareste la stessa risposta che dareste a questa domanda? Il risultato cui siamo pervenuti è costringervi alla nostra risposta non curandoci minimamente della vostra convinzione. Noi siamo andati oltre la domanda e anzi ne abbiamo applicato il metodo alla nostra forma di rivoluzione autosufficiente, una ribellione che sembra bastare a se stessa, che soddisfa noi e soltanto noi che siamo scienziati della reality e l’unica cosa che ci preme è di dimostrare la nostra tesi. Abbiamo scatenato una serie di reazioni controllate fin quanto possibile; abbiamo analizzato i dati cercando di arginare al massimo l’impressionante numero di variabili nelle vostre azioni e nell’immedesimazione, a volte esagerata, di attori raccattati nei più ascosi paesi dell’entroterra isolano. Abbiamo scelto una location straniata dal resto dell’evoluzione, e le abbiamo dato delle convinzioni che col tempo si sono stratificate in folklore quindi in storia recente e definitivamente in quotidianità. La meridionale accondiscendenza con la quale siamo stati accolti è storica (ma di una storia più ricca e remota) e caratteristica financo letteraria di nobiltà lascive e povertà fisiologica. Abbiamo proposto un’alternativa alla disoccupazione innescando un’implosione a orologeria di cui le nuove generazioni intuiscono appena la profondità e anzi sembrano non accorgersi della necessità del taglio, dell’inconfutabile occorrenza della ferità. Siamo stati revisionisti per esigenza ed è l’unica cosa di cui ci vergogniamo, abbiamo inventato una parte della storia d’Italia incuranti dell’infezione che avremmo propagato, in parte perché nostra intenzione, in parte, ripetiamo, per necessaria pattuizione. Non avevamo considerato la colpevolezza come motore immobile e l’irrefrenabile bisogno di sentirla parte integrante e causa suprema di giustificazione. La colpevolezza è stato il virus che ha scatenato la pandemia, prima su base locale poi, oltre la critica, a livello nazionale. L’ordine applicato quando abbiamo lasciato correre il nostro esperimento è stato repulsione, folklore, sottovalutazione, comprensione dei meccanismi intrinseci e, soprattutto, delle potenzialità politiche, sfruttamento, abitudine, tentativo di controllo, folklore di copertura, silenzio. I dizionari recano un significato della parola omertà tutto sommato neutro e gli unici tentativi di reazione sono provenuti da fortunate riforme giudiziarie. Non ci dispiace neanche avere, seppur implicitamente, causato la morte di molti uomini. E nessuno li esalti martiri d’Italia, sono morti naturalmente impossibilitati alle manette. Defunti nelle pieghe di un golpe meta-mediatico che non ha portato né porterà ad alcun capovolgimento politico né insurrezione civile che ci schiererebbe, non a torto, dalla parte dei colpevoli (anche se di una colpevolezza diversa da quella particolare declinazione dell’animo che ha permesso tutto questo). Non faremo nomi già noti né parleremo di particolari maggioranze triplicate in seno ai partiti. Non ci avvicineremo neanche lontanamente all’unica loggia che per prima è stata incuriosita e ammaliata dalla nostra creatura. Non parleremo neanche dell’unica forza mitigatrice che avevamo immaginato, dei giornalisti che hanno perso dimestichezza con il gioco di leve e fulcri e si sono visti travolti, a volte lasciandosi travolgere, da un’altra grande perversione italiana fattasi da sola stringendo le molte unte mani della nostra invenzione sociale. Dinanzi all’immensità delle conclusioni lasciamo tutte queste inezie, in parte risapute e inspiegabilmente neutre, in parte misconosciute. Teniamo soltanto a sottolineare che da tempo abbiamo abbandonato la regia di tutto questo causando pentimenti che non credevamo possibili e un parziale smascheramento delle nostre vittime fino alla dimostrazione della nostra tesi.
Il nostro non è un pentimento tardivo ma un vanto che ci sentiamo di fare nel momento di massimo splendore della nostra nuova evidenza, dell’esplosione di ogni verità nel centenario più falso della storia d’Italia. Ha resistito ai sindacati, alle occupazioni, ha dapprima oltrepassato l’oceano e garantito sbarchi e pace, poi è rientrata e ha attraversato lo stretto per tornarci attendendo cemento, è lentamente risalita accattivandosi simpatie via via più incuriosite, ha suscitato moti d’indignazione, esili lenzuola contra roboanti esplosioni, ha garantito voti, più voti di quanto si pensi e più trasversali di quanto si immagini, ha sorvolato sulla capitale insinuandosi lentamente, mutando come i virus più sofisticati e ha fatto tutto sulle sue ossute gambe con la sola supervisione di un gruppo di cineasti disillusi che da due generazioni osservano compiaciuti l’altra faccia d’Italia, quella biblica e vergognosa. È sopravissuta a chi non ne ha capito la grandezza e ha suscitato dubbi sulla sua tenuta ormai salda morendo miseramente nello sfidarla, incastonato nel nome di una via, nell’intitolazione di un centro di informazione di periferia.
Potreste obiettare che non ha la forza per fare tutto ciò di cui diciamo essere responsabile. Ebbene, vi sbagliate: le abbiamo garantito una forza riflessa, la possibilità di essere un nucleo di concetti poco vaghi e di una concretezza di facile attuazione. Abbiamo stritolato l’essenza di corruzione, omicidio, estorsione, ricatto, spremendone le definizioni fino al sufficiente sentimento di paura che retro intende ognuno di questi delitti definiti «odiosi». Paura e potere, laddove il potere si è pietrificato nella capacità di ingenerare altra paura. Ci siamo infatti compiaciuti nel vedere che le direttive unificatrici della nostra creatura sono migrate verso altre professioni, luoghi, proprio per la loro totale applicabilità al sistema Italia, una metastasi che abbiamo usato come frangiflutti di un’Europa che si avvia all’Alto rappresentante previsto dal trattato di Lisbona.
Adesso parlano tutti privi di una guida molto al di sopra dei servizi segreti, capace di manipolare anche le loro arguzie. E abbiamo deciso di parlare anche noi, l’Alta guida che ha esaurito il suo compito nell’ora in cui viene a nascere il Figlio, il volto pulito e riciclato delle più bieche devianze che abbiamo generato. Col suo avvento, durato vent’anni, la nostra dimostrazione giunge alla sua realizzazione. Le ipotesi sono tesi: la nostra creatura, la Mafia, ha sedotto lo Stato dimostrando che la sua forma corrente è marcia e corrotta.
Noi abbiamo vinto, confidiamo ora nella Terza Repubblica nella speranza non sia soltanto un numero ordinale.

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