Intervista a Fulvio Bortolozzo

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Fotografo torinese, autore di lavori dedicati al paesaggio urbano della sua città (e non solo), Fulvio Bortolozzo viene qui intervistato da Fabio Severo di Hippolyte Bayard.

di Fabio Severo

Quali sono stati i primi stimoli verso la fotografia? Puoi dirci qualcosa della tua formazione fotografica? I tuoi lavori che abbiamo potuto vedere, seguendo il filo che tracci sul sito, partono dalla fine degli anni ’90, eccezion fatta per Affissi, di cui parleremo. Che altro ci puoi dire del tuo lavoro negli anni precedenti?

Per tutti gli anni Settanta sono stato un appassionato lettore e autore di fumetti. Questo interesse forte mi spinse ad orientarmi verso studi artistici, dove feci fondamentali esperienze formative, oltre ad avere l’opportunità di avvicinarmi alla scena torinese dell’arte povera e concettuale. In quel clima maturai il primo interesse consapevole per la fotografia, acquistando nel 1980 una biottica 6×6 sovietica, la Lubitel 2, che sistemai su un treppiede e con la quale iniziai ad esplorare da autodidatta la tecnica fotografica. Successivamente mi avventurai a sviluppare e stampare le mie fotografie nel solito bagno di casa. Nel frattempo mi “acculturavo” leggendo diverse riviste fotografiche. Ricordo ancora la fortissima emozione che mi diedero alcuni numeri monografici di storia della fotografia curati da Roberto Salbitani per Progresso Fotografico. Negli anni successivi abbandonai definitivamente il bianco e nero a favore del colore nella sua espressione più squillante: la pellicola per diapositive. Con questo materiale iniziai a fotografare durante i miei spostamenti ogni cosa che mi interessasse, finendo per concentrare sempre più l’attenzione su alcuni soggetti ricorrenti. Fu in quel periodo che mi avvicinai all’opera di Franco Fontana, in specie Paesaggio urbano e Presenza-Assenza. Successivamente scoprii alla Libreria Agorà di Torino un libro che mi travolse definitivamente: Kodachrome di Luigi Ghirri. Da allora, seppur lentamente, andai maturando la necessità di concentrare ogni mia energia sulla fotografia di ricerca personale.


Progetti come appunto Affissi, ma anche i successivi Alphaville o My dream girls ad esempio, pur nelle loro differenze, comunicano un’appartenenza ad un approccio concettuale nell’uso della fotografia, una rappresentazione dello spazio ma anche del potere evocativo degli oggetti che ricorda una parte del lavoro di Ghirri…

Sì, il primo Luigi Ghirri — quello di Paesaggi di cartone, Topografia-Iconografia, Atlante per intenderci — mi indicò la strada per uscire dalla seduzione della pura forma. Mi fece capire come la forma, pur basilare, debba essere necessaria, mezzo e non fine. Il fine rimane sempre l’idea che si fa visione, il flusso di coscienza innescato dalla percezione. Il potere peculiare della fotografia divenne ai miei occhi quello di trasferire, dislocare, percezioni su superfici bidimensionali che potevano diventare, per questo solo fatto, pensieri sulle cose, sulla vita. Una forma entusiasmante di osservazione e conoscenza.

E poi c’è questo passaggio forte, ci sembra, l’apertura al paesaggio urbano diffuso, nel senso di una fotografia di rappresentazione più complessa e articolata e meno sintetica. Cosa è successo in quel passaggio?

Ci sono ancora ben dentro a quel passaggio e quindi il mio punto di vista è quello del pesce nella boccia di vetro. Detto questo, penso che anche in questo caso si tratti della convergenza di più cause. La prima, e più forte, è stata la perdita di mio padre nel 2003. Il senso di smarrimento e inutilità derivanti, produssero uno stravolgimento interiore nel quale sono ancora immerso. La conseguenza fotografica diretta fu una perdita di fiducia nel logos, nel discorso sulle cose. Non avevo più nulla da dire, nulla da affermare su niente. Nacque così l’opera aperta Scene di passaggio (Soap Opera). La domenica mattina del 5 gennaio 2003 uscii presto dalla casa di un’amica che mi ospitava a Bruxelles con l’intenzione di continuare a sperimentare l’uso del grande formato. Camminando, arrivai davanti ad una breve via. Si chiamava Petite rue du Nord. D’istinto scattai la foto che in seguito riconobbi come la prima della serie. Mentre mio padre moriva, nasceva in me la necessità insopprimibile di abbandonarmi alla pura percezione di luoghi che, per qualche motivo, riverberavano la mia presenza nel mondo.


Un’impressione netta è che questo nuovo approccio sia presente sia nei tuoi progetti personali che negli incarichi professionali, quasi che in alcuni momenti le due linee possano incrociarsi. È così?

Sì, è così. Anzi, direi di più. Sto portando avanti l’idea che non debba più esserci, per quanto mi riguarda, alcuna differenza tra lavoro personale e lavoro commissionato. Intendo affrancarmi del tutto dalla necessità schizofrenica di dividersi tra il “fare per sé” e il “fare per gli altri”. Interpreto gli incarichi che accetto come occasioni di portare la mia vita in luoghi che altrimenti non avrei mai conosciuto e interagisco con essi direttamente. Questo aspetto del mio lavoro ha a che fare con la fiducia nel fatto che il caso non esiste. Quindi affidandomi al caso delle commissioni in realtà sto continuando a camminare per la mia strada. Strada della quale non conosco il passo successivo, ma posso solo voltarmi indietro a guardare i passi fatti nel tentativo, spesso sterile, di vaticinare i passi successivi.

Il paesaggio urbano è un tema molto forte della fotografia contemporanea, dai lavori di alcuni grandi nomi della scuola di Düsseldorf ad autori italiani quali Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Francesco Jodice. Come si convive con vicini “ingombranti” come questi, sia all’estero che in Italia, mantenendo una linea di ricerca propria ed in grado di rinnovarsi?

Negli States è normale sentirsi parte di una tradizione e dialogare con autori passati e contemporanei attraverso le proprie opere. Anche per me è così. Il mio lavoro interloquisce con quello di altri autori e così contribuisce, spero, a portare avanti il discorso in una dialettica che ritengo sempre indispensabile. In questo senso, gli autori citati, lungi dall’essere vicini “ingombranti”, sono parte essenziale della tradizione fotografica internazionale nella quale mi riconosco. Il rinnovamento della ricerca, a mio parere, non può essere però un mio problema. Il mio compito di autore è di riuscire a diventare così preciso da migliorare al massimo possibile la quasi impronunciabile bortolozzità di cui sono portatore unico e irripetibile. Punto. Cosa questo significherà per la tradizione, saranno il tempo e la valutazione di contemporanei e posteri a stabilirlo.


A proposito di Basilico, mi è capitato di leggere una tua riflessione interessante sui rischi di anteporre una propria griglia visiva ad ogni luogo che ci si trova a fotografare, contrapposto al cercare di farsi attraversare dai luoghi, fondendo la propria visione con la natura e la diversità dei luoghi. Tu hai realizzato Shift:Bari nel 2006. Hai avuto modo di vedere il lavoro di Basilico?

Del lavoro di Gabriele Basilico su Bari ho visto solo una trentina di riproduzioni su Internet, quindi troppo poco per formarmene un’opinione. L’unica cosa cui posso accennare è alla diversità dei nostri atteggiamenti nei confronti degli stessi luoghi. Fatto questo sul quale ebbi già modo di riflettere mentre realizzavo la serie Olimpia in zone dove anche lui lavorava nell’ambito dell’incarico pubblico che portò in seguito alla mostra Sei per Torino.
Dando per assodato che Basilico è un riferimento imprescindibile per chiunque si trovi ad occuparsi di paesaggio urbano oggi in Italia e che quindi anch’io ho ricavato molte utili indicazioni dallo studio della sua opera, ritengo che i nostri percorsi divergano proprio sul terreno del rapporto con lo spazio urbano.
A mio parere, Basilico guarda la città attraverso il filtro di una solida cultura architettonica, di ascendenza illuministica e modernista, nel costante intento di trovarvi un ordine pacificante, anche solo in via ipotetica. Per quanto riguarda me, invece, lo spazio, non solo quello urbano, è prima di tutto un contenitore di potenziali percezioni ovvero una scena. Il mio intento è di esperire direttamente le possibilità percettive del luogo e di riuscire a trasferirle nello spazio e nel tempo per tramite di un oggetto, la fotografia, che, pur disperdendone una gran parte, è in grado di conservarne traccia verosimile.
La mia osservazione sulla griglia visiva cui fai riferimento è da leggersi in relazione con un altro aspetto dell’opera di Basilico: la ripetizione di una serie di soluzioni compositive, senza variazioni sostanziali, in contesti molto differenti. Una specie di reticolo universale indipendente che, a mio avviso, contiene un notevole rischio di autoreferenzialità.

I tuoi progetti Olimpia e Spina Centrale potrebbero essere due capitoli di un unico grande lavoro sulla costruzione del paesaggio metropolitano nell’area torinese. Scene di passaggio è la tua opera aperta, ma anche il filo che sta dietro a tutto il tuo lavoro, ci sembra di capire. Le immagini, dici, “accadono quando, nel corso dei miei spostamenti, prende il sopravvento la percezione di trovarsi di fronte ad una scena che ha una relazione con la mia esistenza”. Una riflessione/domanda: possiamo dire che quella che tu chiami relazione con la tua esistenza sia anche una dimensione di approccio più percettivo rispetto a quello che hai di fronte, un cercare non con il pensiero verbale ma tramite sensazioni che nascono dal guardare, laddove, forse, la prima fase del tuo lavoro era più a tesi, meno visivo/percettiva?

Direi piuttosto che ora sento più fortemente la necessità di usare lo strumento fotografico per dare spazio alla contemplazione delle cose e con essa rendermi più disponibile ad ascoltare cos’hanno da dirmi. Un tempo ritenevo invece prioritario il fatto di essere io ad avere delle cose da dire.


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Una Risposta to “Intervista a Fulvio Bortolozzo”

  1. Intervista a Fulvio Bortolozzo « minima & moralia Says:

    […] Intervista a Fulvio Bortolozzo « minima & moralia December 9th, 2009 Del lavoro di Gabriele Basilico su Bari ho visto solo una trentina di riproduzioni su Internet, quindi troppo poco per formarmene un’opinione. L’unica cosa cui posso accennare è alla diversità dei nostri atteggiamenti nei confronti … […] […]

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