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Sul pubblicare per Berlusconi

gennaio 25, 2010

In questi giorni si sta sviluppando in rete e sulla stampa un ampio dibattito sul rapporto tra intellettuali e potere editoriale. Il primo fronte polemico si è aperto sulla decisione di Paolo Nori di pubblicare alcuni suoi pezzi sul quotidiano Libero, criticata tra gli altri da Andrea Cortellessa (qui, nei commenti) e discussa, in presenza dell’autore e del critico, in un incontro pubblico che si è tenuto a Roma martedì 19 gennaio alla libreria Giufà. E di questo e di altro parla Tiziano Scarpa in un pezzo uscito sulla Stampa e ripreso qui. Su Nazione Indiana Helena Janeczek ha scritto, invece, un’appassionata difesa delle ragioni di chi lavora o ha deciso di pubblicare per il gruppo Mondadori pur non condividendo le idee e la politica culturale della proprietà. L’articolo che pubblichiamo qui di seguito, scritto da Vincenzo Ostuni, direttore editoriale di Ponte alle Grazie, risponde in qualche modo al pezzo della Janeczek ed è stato pubblicato sul Manifesto di ieri, domenica 24 gennaio 2009.


di Vincenzo Ostuni

Quando lo scorso novembre Saviano rivolse un appello a Berlusconi perché ritirasse la legge sul processo breve, a Luisa Capelli, editrice di Meltemi, e al sottoscritto saltò il ticchio di rilanciare, mettendo in campo il più perverso tabù della nostra società letteraria (o dei suoi frantumi). Fondammo un gruppo Facebook chiedendo allo scrittore di lasciare il suo editore qualora, com’era scontato, non avesse desistito. Per chi non lo sapesse, ricordiamo che la maggioranza del gruppo Mondadori (oltre al marchio eponimo, Einaudi, Piemme, Sperling & Kupfer, Frassinelli, Electa: circa il 30% del mercato librario) è di proprietà della Fininvest, ovvero Silvio e famiglia. In poche settimane abbiamo ricevuto 2200 adesioni e alcune critiche. Saviano in un’intervista ha dichiarato, in maniera forse indipendente dall’appello: «Sto riflettendo se continuare a pubblicare i miei libri con Mondadori». Da altri autori del gruppo quasi nessuna voce, ed è quest’ultimo aspetto a stupirci. Ma è davvero moralmente indifferente, per uno scrittore dell’ampio e disunito fronte nonberlusconiano, pubblicare i propri libri per B.? O almeno è un errore politico? Si tratta di una scivolatina, incoraggiata da migliori condizioni economiche (mica sempre), dalle maggiori prospettive di successo (ma non è affatto detto), dallo charme del bianco Einaudi (dove c’è ancora), o dall’indubbia (ma ineguagliabile?) professionalità dei suoi editor? O all’opposto, come sostiene ad esempio Wu Ming, pubblicare per B. ha un valore politico aggiunto, l’occasione di attizzare un focolaio di resistenza nel cuore delle cittadelle occupate, all’interno delle quali noialtri si «resisterà un minuto di più»?

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